La depressione post partum o meglio il maternity blues

Abbiamo pubblicato questa pagina che nasce dall'articolo della dottoressa Manuela Trinci apparso sull'Unità il 27/5/2005. Ti invitiamo a leggerla per parlare con noi di quando non ne puoi più, non dormi, non vivi, il bambino occupa tutta la tua vita e vorresti scappare lontano.

Dei trucchi per la sopravvivenza, come usare vicini e parenti, chi deve pulire la casa quando la mamma allatta, perchè a volte "lui" non capisce. Di come fare a cavarsela quando tutti ti danno consigli su come essere una madre perfetta mentre tu non sai dove mettere le mani ma preferisci sbagliare da sola. Del "maternity blues", quella tristezza che a volte sostituisce il senso di potenza della madre.

Una volta si chiamava il "pianto del latte". Oggi ha il nome di una musica lenta, dolce e triste che evoca invece il pianto dell'anima: "blues del dopo parto" o "babyblues". Così, Donald Winnicott, pediatra e psicoanlista inglese, aveva definito quel leggero stato di depressione, quell'incomprensibile malinconia, che colpisce circa l'80% delle donne verso il quinto giorno dopo il parto, insinuando fra i sentimenti gioiosi di aver generato un bambino, altri, meno nitidi, più confusi e indecifrabili.

Una normale reazione della mamma al primo grande distacco fisico, all'improvvisa, cesura del legame simbiotico, sostengono in molti, una dolente malinconia che affonda le sue radici nel venir meno del "bambino della notte", il bambino lunare, fantasticato durante la gravidanza o ancora prima, da bambine.

Con l'avvento sulla scena del bambino "reale", ecco allora che questa sorta di silenzioso, fisiologico, ritiro in se stesse assume altre valenze riflessive, e le neo-mamme si osservano, perplesse sulle proprie capacità di allevare il neonato: un grande sconosciuto.

Perché oggi, spesso, si diventa mamme senza avere mai visto un neonato, diversamente da un tempo in cui era da mamme, zie, cuginetti e fratellini, in un contesto di famiglia allargata, che si imparava un "saper fare" al femminile, rassicurante, che toglieva al tanto esaltato "istinto materno" quell'aurea di odierno misticismo a favore di una concezione dove alla "natura" faceva seguito e risconto una "cultura" condivisa della competenza materna.

Chiacchierare con un neonato, appassionarsi alle sue straordinarie visioni della vita, diventa così difficile, ed è davvero curioso che in un contesto culturale come il nostro che in teoria esalta la maternità, condannando aborto, contraccezione e referendum, in pratica la maternità la emargina, tagliando in contemporanea fondi monetari a Nidi, Servizi e Sicurezza Sociale.

Certo non sono gli "sportelli rosa" del comune di Milano o i mille euro dati in premio dal Governo per il secondo figlio, ad alleviare il senso di solitudine quasi fisica, o la frettolosità, o l'anonimato, in cui si trovano a vivere molte mamme di oggi, conseguentemente impaurite da un coinvolgimento "a due" con il bambino; un legame che possono avvertire come eccessivo, come un qualcosa che le assorbe totalmente, tanto da annegarci dentro.

In questo senso la fretta di "togliersi la vestaglia", di riprendere rapidamente il lavoro riconquistando competenze sociali sicure, come denunciano le statistiche, rappresentano anche una fuga dall'isolamento e dalla solitudine. Il fiorire e moltiplicarsi sul mercato di riviste specializzate da "Io e il miobambino", "Mamma e Bambino", "Insieme", "Primi giorni", "Primi mesi" e così via, e di una miriade di libretti divulgativi, a ben guardare, danno ragione a una visione incerta, paralizzante e solitaria che accompagna la neomamma quando, fuori taglia e spaesata, torna a casa con il suo neonato. Inevitabili irritazioni, momenti di stanchezza e di insofferenza da una parte, avide pretese e proteste rabbiose dall'altra segnano le tappe della lotta quotidiana che costituisce l'altra faccia della medaglia nell'idilliaco rapporto madre-bambino.

Basta poco per capire che l'amore materno (per intendersi quello della pubblicità Barilla o dell'acqua Sangemini) non basta, e che la canzoncina della Zanicchi "Mamma tutto" è una frottola.

Sotto la dittatura dell'orologio, al limite delle forze, loro, le mamme-sorriso, in realtà si sentono tritate come polpettoni. E corrono, le mamme, al primo pianto senza dare al bambino il tempo di vivere l'attesa.

E' vero, hanno fretta di decodificare il pianto o la bizza, perché in un'ora devono fare il bagnetto al piccino e preparare la cena.

E sanno di sbagliare perché proteggendolo a oltranza sottraggono al rampollo l'esperienza creativa di infilarsi, magari, nell'attesa, un dito in bocca.

Li viziano, dunque, ricorrono anche a un allattamento ininterrotto, dando loro la sensazione che solo nel rapporto continuo e fusivo con la madre ci sia la possibilità di star bene. E poi è vero. Il pianto del piccino è intollerabile. Lo vivono come un rimprovero; altre volte ne hanno proprio paura, si sentono incapaci di frenare quella furia irosa.

Diciamo pure che di fronte a quell'oggetto piccino, totalmente dipendente dalle proprie cure, le neo-mamme si sentono schiacciate dal peso della responsabilità, svalutate dalla solitudine, preda di un groviglio di sentimenti, in un "acceleriamo" contemporaneo che non dà tregua perché i bambini invece sanno che il mondo è tutto per loro e si regolano di conseguenza!

Mamme, alla fine, esauste, che non si divertono più e che intrattengono il bambino come fosse un piccolo imperatore offrendo attività, cambiamenti e eccitazioni, incapaci di porre dei limiti; per questo i ragazzini, annotano i sociologi, diventano poi spietati e tirannici facendo esplodere di rabbia anche la più materna delle mamme. Sentimenti difficili da decodificare, ambivalenze che poco si legano a un¹idealizzazione dell'amore materno che provoca in molte madri l'incapacità di accettare momenti di stanchezza, di irritazione, di insofferenza, a volte anche di collera e di aggressività nel confronti del figlio, senza sentirsi in colpa.

"Ci sono persone che rimangono colpite quando scoprono che un neonato non suscita in loro solo sentimenti d¹amore" affermava Winnicott. Invece è importante sapere che anche l'aggressività è una componente dell'amore materno, da sempre.

In fondo, Hansel e Gretel o lo stesso Pollicino avevano una mamma che non aveva esitato a esporre i loro bambini alle fiere del bosco, senza togliersi certo "il pane di bocca", come vorrebbe la tradizione.

E anche la mamma di Cappuccetto Rosso: lasciare andare con disinvoltura la sua bambina in un bosco infestato dai lupi! E quante strege, maghe, orchesse, suocere o sorellastre, stanno lì a segnalare archetipi di una madre cattiva dispotica e invidiosa, sdoppiamento, tuttavia, indispensabile della primitiva immagine materna nella dolce mamma del cielo da un lato e nella malvagia mamma della terra, dall'altro.

Rabbie e rancori albergano così nella mente materna, di colei che per principio e comodità - siamo abituati a considerare buona, disponibile e preoccupata solo del bene dei propri figli. Eppure, Freud per primo aveva aperto la via alla concezione dell'ambivalenza affettiva, intesa nel senso di un decorrere parallelo dei sentimenti di amore e di odio.

La madre, quindi, per quanto amorosa, è per naturale conseguenza quella che inconsciamente odia di più il bambino e quella che ha più motivi per odiarlo, "schiavizzata"e "vampirizzata" com'è dalle sue incessanti richieste, in uno sfibrante servizio a tempo pieno, in una dedizione assoluta, e apparentemente senza contropartita.

Senza pruderie e sentimentalismi Winnicott, proprio lui, il teorico della mamma normalmente devota e sufficientemente buona, aveva ritenuto che fosse per prima la mamma a odiare il suo bambino, molto prima che questi desse il via alle proprie ostilità.

E a questo umano sentimento materno riconobbe ben diciotto validissime motivazioni.

Vogliamo ammettere che il bambino, diverso da quello immaginato, non lo porta la cicogna e che per nascere ha sformato il suo corpo e messo a repentaglio la sua vita?

Vogliamo considerare che la tratta come una colf senza stipendio, che lei è costretta ad amarlo, cacca inclusa, mentre lui, l'ingrato, le mordicchia rabbioso il seno gonfio di latte, esige la sua presenza continua poi dopo la molla come si fa con un limone spremuto?

Inoltre, nulla della mamma resta inviolato, non c'è uno spazio fisico o mentale che il figlio non possa mettere a "ferro e fuoco", impadronendosi dei segreti. Senza considerare che la tradisce con la tata, fa le boccacce alla sua pappa, ignora e ignorerà sino alla vecchiaia i suoi tremendi sacrifici, e in più la frustra perché crescendo si sottrae al suo amoroso potere e perché lui non può tollerare il suo odio, e lei deve fare di tutto per controllarlo e reprimerlo senza cedere al desiderio di fargli male.

La madre viene grossolanamente usata, concludeva Winnicott, il suo serbatoio di energie individuato, forzato e svuotato con puntigliosa regolarità da bambini che vanno per la loro strada e che si lamentano. Non c'è pietà, non un ringraziamento esplicito, le vie di mezzo sono escluse, perché il compito principale del bambino piccolo è sopravvivere.

E dunque i bambini continueranno ad essere una seccatura. Però una soluzione, il socratico Winnicott l'aveva individuata nel fatto che alla madri serve "dire", "condividere" le proprie tribolazioni mentre le stanno vivendo.

"Una parola al momento opportuno fa giustizia di tutti quanti i rancori, scriveva, sono convinto, per dirla in termini pratici, che sia utile far toccare con mano alle madri i loro risentimenti, anche i più aspri". Condividere il mestiere di mamma, sollevare la coltre della solitudine consente alla mamma stessa, non più idealizzata, di "odiare a volte il suo bambino, senza mai fargliela pagare" (Winnicott).

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Di Manuela Trinci - Grazie per la gentile autorizzazione dell'autrice.

Per approfondire:

10 giugno 2012

5xmille

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